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La Stampa – Asti

“Tra Camerano e il Camerun insegno quello che ho imparato dalle api”

Paulin Takumbo Takam detto Tak è in Italia dal 2008: produce miele e progetta arnie per la specie africana

 

«Allevare api significa giocare a scacchi con la Natura».

Una partita avvincente fatta di mosse e contromosse, l’insidia è sempre dietro l’angolo e bisogna usare il cervello per prevederla.

Paulin Takumbo Takam detto Tak adesso conosce bene le regole di questa partita. Da piccolo, in Camerun, non le conosceva ancora: «Mio padre allevava api – dice Takumbo – ma con il metodo africano e non con l’arnia razionale».

Cioè senza melari, dove rimane solo il miele: in Camerun, le api vengono allevate in un vaso o in una sorta di tronco cavo tagliato a metà e la raccolta del miele avviene «spremendo» il favo. «Ero goloso – ricorda Tak – rubavo un pezzo di favo e succhiavo il miele, ma dentro c’erano ancora api e mi pungevano la lingua».

Dalla lingua gonfia di un bambino nasce la curiosità, sopita per lunghi anni, di capire come funzionasse il misterioso mondo delle api.

«Sono venuto in Italia nel 2008 – ricorda Paulin – volevo fare l’accademia delle Belle Arti ma non avevo i soldi necessari». Ripiega allora su Scienze Forestali, all’Università di Torino.

Tak studia, si laurea e mette su un apiario. Poi un altro e un altro ancora. Va a vivere a Camerano Casasco «Anche nel nome – scherza Tak – non è poi così distante dal Camerun».

Si sposa e nascono due figli che ora hanno 5 e 3 anni. E crea un ponte con l’Africa. «L’apicoltura laggiù è basata sull’esperienza e non sullo studio – dice Takumbo – eppure è importante conoscere la biologia dell’insetto».

Tak progetta delle arnie per le api africane che sono più piccole di quelle europee. Distanze studiate al millimetro, perché le api non lasciano nulla al caso, e non deve farlo neanche chi si occupa di loro.

Adesso insegna ai suoi compatrioti come gestire in maniera migliore gli apiari.

L’accademia delle Belle Arti, e il problema dei soldi per frequentarla, è completamente dimenticato «Il lavoro dell’apicoltore è questo – dice – trasformare i problemi in opportunità».

Nessun rimpianto. «Le api ti trascinano nel loro mondo – racconta – e non ti fanno più uscire». Adesso gestisce circa 250 arnie da miele e circa 150 da «nuclei» da dove nasceranno le nuove «famiglie» di api. Alleva api regine. Produce miele, pappa reale e propoli. Vince premi e ottiene riconoscimenti come ad esempio il «Tre gocce d’oro» piemontese, una sorta di Oscar del miele organizzato dall’Osservatorio nazionale.

Delle api conosce ogni segreto. «Il propoli è la loro risposta a un problema – spiega – odiano gli spazi aperti nell’alveare e così chiudono tutto con questa sostanza».

I problemi sono tanti: «Ma quello che più mi spaventa è il cambiamento climatico: da cinque anni a questa parte è terribile».

Le tecniche che valevano solo un anno fa non sono più attuali. Poi c’è la vespa vellutina, calabrone asiatico che fa strage di api, i fiori che non fioriscono, pioggia, il vento che rende nervose le api: «Pungono – dice Tak – e fanno male. Ma lo fanno semplicemente perché sbagli qualcosa con loro».

Sono un mondo alieno che bisogna rispettare e comprendere. «Ma se riesci a farlo, come tutti i mondi possibili, non puoi non amarlo – sottolinea Tak – Come l’Africa, come l’Europa: mondi alieni che devono comprendersi». Tak ogni giorno si ispira a un detto diffuso tra gli apicoltori: «Gli altri vanno a lavorare, noi andiamo dalle api».

«Anche se è duro, con poche soddisfazioni economiche – dice – e anche tante punture, fare l’apicoltore è un modo di essere». È il «problema» di una lingua gonfia in Africa tanti anni fa, capace di trasformarsi in opportunità.

 

ARTICOLO ORIGINALE

 

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